domenica 21 marzo 2010

DESTINO e LIBERO ARBITRIO




Vedendo il film “Final destination” mi sono sorti diversi dubbi. Questo film parla del destino di ognuno di noi in maniera abbastanza particolare: spiega e mette in azione come tutti abbiamo già prefissata la nostra morte attraverso un ciclo universale. Nessuno riesce ad evitare la morte anche chiudendosi in casa senza oggetti pericolosi, quando è il nostro momento la vita finisce. È possibile l’esistenza di questo ciclo " particolare "?

Elisabetta

Cara Elisabetta,

Martin Heidegger è stato il pensatore che in epoca moderna meglio ha tematizzato il concetto di destino. È nel suo saggio Essere e tempo, pubblicato nel 1927, che il termine riceve una prima formulazione definita, ma anche nella sua riflessione posteriore il concetto riceve delle elaborazioni molto importanti, in una prospettiva che va però oltre l'esistenzialismo, e che, passando per il suo nuovo concetto di ontologia si carica anche di suggestioni mistiche estremamente importanti e suggestive.

Per quanto riguarda l'uomo, l'idea di destino sembra infatti più corrispondere, psicologicamente, al nostro modo d'essere. Destino quindi determinato dalle scelte che facciamo, dettate dal carattere; dalla scelta che altri di noi fanno, che può quindi condizionare il nostro futuro, dettata dalla nostra fisionomia caratteriale.

Diversa è la visone di Carl Gustav Jung: “Fin da principio avvertii la presenza del destino, come se la vita fosse un compito da assolvere assegnatomi dal fato: ciò mi dava un intimo senso di sicurezza, che, sebbene non potessi mai trovarne ragione in me stesso, mi s’imponeva da sé. Non ero io ad avere questa certezza, era essa a possedermi.”

Il teologo Vito Mancuso, ci dice che "La storia della teologia cristiana presenta un dibattito spesso feroce e dagli esiti ancora oggi irrisolti in ordine al tema della libera decisione degli uomini a favore del bene. Emblematica al riguardo in ambito cattolico è la controversia de auxiliis che divise domenicani e gesuiti tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento e che si concluse con un nulla di fatto.
L’impossibilità di risolvere la questione a livello antropologico rimanda all’impossibilità ancora più conclamata della questione teologica vera e propria, ovvero della libertà che va attribuita all’Essere divino. Si tratta di un essere la cui essenza consiste nella perfetta libertas, oppure nella perfetta necessitas? L’enigma della libera decisione rimanda alla questione metafisica per eccellenza, “all’unico e comune bisogno di tutte le filosofie come di tutte le religioni: conquistare una rappresentazione di Dio, e poi della relazione di Dio e del mondo” (Hegel, Enciclopedia, § 573).


Il libero arbitrio è il concetto filosofico e teologico secondo il quale ogni persona è libera di fare le sue scelte. Ciò si contrappone alle varie concezioni deterministiche secondo le quali la realtà è in qualche modo predeterminata (destino), per cui gli individui non possono compiere scelte perché ogni loro azione è predeterminata prima della loro nascita (predestinazione o servo arbitrio).
Il concetto di libero arbitrio ha implicazioni in campo religioso, etico e scientifico. In campo religioso il libero arbitrio implica che la divinità, per quanto onnipotente, scelga di non utilizzare il proprio potere per condizionare le scelte degli individui. Nell'etica questo concetto è alla base della responsabilità di un individuo per le sue azioni. In ambito scientifico l'idea di libero arbitrio determina un'indipendenza del pensiero inteso come attività della mente e della mente stessa dalla pura causalità scientifica.

Le posizioni sul problema filosofico del Libero Arbitrio sono semplificate in queste due possibilità:
1. Il determinismo è certo?
2. Esiste il libero arbitrio?
Il determinismo è l'idea che tutte le cose che accadono nel presente e nel futuro sono una conseguenza causata necessaria dagli eventi precedenti.
Il compatibilismo (anche detto determinismo morbito) crede che l'esistenza di libero arbitro sia compatibile con il fatto che l'universo sia deterministico, all'opposto l'incompatibilismo nega questa possibilità. Il determinismo forte è una versione dell'incompatibilismo che accetta che tutto sia determinato anche le azioni e la volontà umane. Il libertarismo (in inglese, Libertarianism) si accorda con il Determinismo forte solo nel rifiutare il compatibilismo; ma i libertari accettano l'esistenza di un certo libero arbitrio insieme con l'idea che esistano alcune cose indeterminate.

"La disputa intorno alla libertà dell'arbitrio umano, che tra il 1524 e il 1526 vede contrapposti Erasmo da Rotterdam e Martin Lutero, costituisce un momento decisivo nella storia del pensiero occidentale e della modernità. Nello scritto di Erasmo e nella risposta di Lutero viene infatti al pettine il nodo del rapporto tra due componenti essenziali della cultura della prima età moderna, ossia l'umanesimo e la Riforma protestante. Vi si confrontano due distinte concezioni della libertà: prerogativa inderogabile della ragione umana per Erasmo, dono divino inscindibile dalla grazia per Lutero."


Nella visione della mia scuola di pensiero, basata sull’evoluzione umana da individui solitari ed egoistici verso collettività altruistiche sociali (vedi i miei POST “Il Male e il Bene” http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/01/il-bene-e-il-male-rev-1.html e “La solitudine” http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/03/la-solitudine.html), questa lenta trasformazione può essere accelerata o meno da tante singole scelte di singoli individui umani. E, sotto questo aspetto, non ci allontaniamo molto da Martin Heidegger.

Qui sta la chiave, a nostro avviso, del LIBERO ARBITRIO. Un libero arbitrio di FARE SINGOLE SCELTE, che possono poi influire, anche pesantemente, sul NOSTRO DESTINO e sul DESTINO di altri uomini. Sotto un certo aspetto, siamo anche vicini alla visione cattolica del MALE che si serve della TENTAZIONE; ovvero noi, esseri umani, siamo sempre tentati dal nostro egoismo personale di ottenere benefici immediati e limitati, a discapito del bene della comunità a cui apparteniamo. E in questa visione, similare a quella cattolica, possiamo fare anche delle SCELTE PRELIMINARI; ovvero possiamo cercare, a priori, di fuggire le possibili tentazioni. Dobbiamo, cioè, essere consapevoli che non sempre, specialmente in certe situazioni specifiche, in cui l’emotività e le passioni possono prendere il sopravvento, siamo in grado di resistere ad esse.

Nel “PADRE NOSTRO” dei cattolici vi è la frase “NON CI INDURRE IN TENTAZIONE, MA LIBERACI DAL MALE”. Ebbene anche il PREGARE è un’azione di LIBERO ARBITRIO che ci rafforza, anche inconsciamente, nel perseguire le scelte ALTRUISTICHE, rifiutando quelle EGOISTICHE; a parte eventuali effetti inconsci e psicosomatici di influenza sugli altri, che possono modificare le scelte e il destino di altri uomini.

Nel terzo millennio, appare sempre più chiara l'interdipendenza delle scelte umane, specialmente per quando riguarda la minaccia di una guerra termonucleare, e la difesa dell'ambiente. Da qui il nostro dovere di adoperarci, con le nostre singole scelte, non solo per eliminare i TUMORI della collettività umana, ma anche per RIGENERARNE IL TESSUTO ALTRUISTICO SOCIALE. Quindi LIBERO ARBITRIO dei singoli che produce effetti limitati, ma soprattutto LIBERO ARBITRIO, democraticamente guidato, della comunità umana, chiamata sempre più a SCELTE RESPONSABILI, dalle conseguenze mondiali.

In conclusione, credo che il FUTURO non sia stato scritto in modo DEFINITIVO, e si può sempre, ma LIMITATAMENTE, modificare con il nostro LIBERO ARBITRIO, singolo e collettivo.

Un caro saluto
Alessandra

sabato 20 marzo 2010

Effetto PLACEBO, autoguarigioni e GENE P21




Mia mamma si è ritrovata di fronte ad una delle più gravi malattie del nostro secolo: il tumore; però invece di abbattersi e di piangere su se stessa ha tirato fuori una grande (apparente, dal mio punto di vista) serenità; forza, coraggio e voglia di vivere. In questo modo abbiamo superato tre operazioni e mesi e mesi di chemioterapia in maniera assolutamente normale. La domanda che mi pongo adesso è: perché voglio portare all'esame un tema così profondo e difficile e quindi ricordare questo momento da dimenticare anziché lasciare tutto alle spalle?
Sonia


Cara Sonia,
da tempo, è noto che esiste l’effetto placebo. Per effetto placebo si intende una serie di reazioni dell'organismo ad una terapia, non derivanti dai principi attivi insiti dalla terapia stessa, ma dalle attese dell'individuo. In altre parole, l'effetto placebo è una conseguenza del fatto che il paziente, specie se favorevolmente condizionato dai benefici di un trattamento precedente, si aspetta o crede che la terapia funzioni, indipendentemente dalla sua efficacia "specifica". L'effetto placebo contribuisce non poco anche all'efficacia di una terapia specificamente attiva. L'effetto placebo è fortemente influenzato da una serie di variabili soggettive quali la personalità e l'atteggiamento del medico (iatroplacebogenesi) nonché le aspettative del paziente.
Il meccanismo alla base dell'effetto placebo è "psicosomatico" nel senso che il sistema nervoso, in risposta al significato pieno di attese dato alla terapia placebica prescrittagli, induce modificazioni neurovegetative e produce una serie numerosa di endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare la sua percezione del dolore, i suoi equilibri ormonali, la sua risposta cardiovascolare e la sua reazione immunitaria.
Ci sono al riguardo posizioni più radicali negative e altre più conciliative, secondo le quali l'uso del placebo è ammissibile anche in questo caso, ma condicio sine qua non è che: 1) i soggetti avviati a trattamento con placebo abbiano dato ad hoc un consenso libero e adeguatamente informato e 2) che la non erogazione di un trattamento efficace già disponibile non comporti comunque pericoli o conseguenze gravi.
È tuttavia plausibile sostenere che nell'effetto placebo entrino in gioco molteplici fattori, tra questi:
• fattori biologici (ad es. le endorfine che medierebbero l'effetto antalgico placebo)
• suggestione e l'autosuggestione
In definitiva, il placebo, sebbene mal definibile in termini di causazione, può essere inteso come un insieme di fattori extrafarmacologici capaci di indurre modificazioni dei processi, anche biologici, di guarigione intervenendo a livello del sistema psichico: non per nulla molti autori considerano quasi sinonimi i termini placebo e suggestione.

Proprio per quanto riguarda i tumori, vi sono infiniti casi di auto guarigione psicosomatica; per cui associare la medicina tradizionale e la chemioterapia a un ottimismo personale o ad una fede di guarire, è senza dubbio un ottimo metodo.
La verità è che noi CONOSCIAMO ANCORA MOLTO POCO LE POTENZIALITA’ DI AUTOGUARIGIONE DEL NOSTRO CORPO; e recentemente ne abbiamo avuto una prova sconvolgente, con la soluzione di UN MISTERO DELLA BIOLOGIA. Mi riferisco a un articolo di LE SCIENZE del 17 Marzo 2010:
E’ stato scoperto che nel gene p21 vi è il segreto della rigenerazione tissutale.

“Una ricerca durata oltre un decennio ha dato luogo a una scoperta fondamentale per la biologia: un gene che regola la rigenerazione dei tessuti nei mammiferi. L'assenza di questo singolo gene, denominato p21, conferisce ai topi ingegnerizzati una capacità ritenuta finora perduta nel corso dell'evoluzione, e riservata a organismi come vermi piatti, spugne e alcune specie di salamandre: la rigenerazione di tessuti danneggiati.
In un articolo ora pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, i ricercatori del Wistar Institute riferiscono di come la mancanza di tale gene consenta ai topi di formare un blastema, una struttura associata a una crescita cellulare e a una differenziazione rapide, come si osserva negli anfibi. Secondo gli autori dello studio, la mancanza del gene induce le cellule a comportarsi in modo simile a cellule embrionali più che a cellule adulte, e fornisce la prova della correlazione tra rigenerazione tissutale e controllo della divisione cellulare.
"Proprio come un tritone che ha perso una zampa, questo topo è in grado di sostituire il tessuto mancante con tessuto sano senza alcun segno di cicatrice”, ha spiegato Ellen Heber-Katz, che ha coordinato lo studio. "Solo ora stiamo cominciando a comprendere le conseguenze di questi risultati: la speranza è quella di arrivare un giorno ad accelerare la guarigione dei tessuti negli esseri umani inattivando temporaneamente il gene p21.”
Heber-Katz e colleghi hanno utilizzato un topo con gene p21 knockout per cercare di risolvere un un mistero incontrato per la prima volta nel 1996 nel suo laboratorio, che riguarda un altro ceppo di topi. I topi MRL, oggetto di un esperimento sull'autoimmunità, venivano infatti marcati con un foro nell'orecchio. Poche settimane dopo i ricercatori notavano però che i fori scomparivano senza traccia. Ciò ha portato i ricercatori a porsi una questione: i topi MRL potevano essere un finestra di capacità rigenerativa tra i mammiferi?
Si è così scoperto che il gene p21, un regolatore dei ciclo cellulare, era virtualmente inattivo nelle cellule delle orecchie dei topo MRL. L'espressione del gene P21 è strettamente regolata dal soppressore tumorale p53, un altro regolatore della divisione cellulare in molte forme di cancro. L'esperimento finale era diretto a dimostrare che un topo mancante di p21 avrebbe avuto una risposta rigenerativa simile a quella osservata nel topo MRL, e così è stato.
"Nelle cellule normali, il gene p21 funziona come un freno, che blocca la progressione del ciclo cellulare nel caso di danno al DNA, impedendo alla cellula di dividersi e di diventare potenzialmente cancerosa”, ha commentato Heber-Katz. "In questo topo senza p21, abbiamo effettivamente osservato l'atteso incremento nel danno genomico, ma sorprendentemente non si è registrato alcun aumento di cancro”.
In effetti, i ricercatori hanno osservato nel topo MRL un aumento dell'apoptosi, il processo di morte programmata, che viene spesso attivata quando il DNA è stato danneggiato. Secondo, Heber-Katz, è proprio questo tipo di processo quello alla base della capacità rigenerativa.
"L'effetto combinato di un incremento di cellule altamente rigenerative e dell'apoptosi può permettere alle cellule di questi organismi di dividersi rapidamente senza andare fuori controllo e senza diventare cancerose", ha concluso Heber-Katz. "In effetti, è simile a ciò che si osserva negli embrioni dei mammiferi, in cui il gene p21 è inattivo in seguito a un danno al DNA. La regolazione del p21 promuove lo stato pluripotente indotto nelle cellule dei mammiferi, chiarendo una correlazione tra cellule staminali, rigenerazione tissutale e ciclo cellulare.”


Tutto questo potrebbe spiegare, in modo biologico, molte guarigioni ritenute miracolose, dovute a rigenerazione di tessuti (come ad esempio la scomparse delle stimmate in alcuni mistici) e casi inspiegabili secondo la medicina tradizionale. Basterebbe, ad esempio, che per questioni psicosomatiche inconsce, si blocchi temporaneamente il gene p21.

In conclusione, la forza di volontà di guarire, per fiducia personale o indotta dal medico (o anche per fede religiosa) è MOLTO SPESSO un valido AIUTO. L’errore sarebbe affidarsi solo alla psicosomatica, trascurando la medicina tradizionale, proprio perché non conosciamo ancora bene tutti i processi psicosomatici, influenzati da molti singoli fattori, spesso personali.

Ritornando, infine, al motivo del perché della tua lettera, non escludo che tu l’abbia fatta per altruismo; ovvero per dare un ennesimo esempio che “la serenità, la fede, la forza, il coraggio e voglia di vivere” sono tutti elementi psicosomatici che ci possono aiutare nelle gravi malattie.

Un caro saluto

Alessandra

martedì 16 marzo 2010

I RICORDI. Io sono quello che sono perchè mi ricordo di cosa ho pensato.



Qualche anno fa ho litigato con un gruppo di amiche che pensavo mi avrebbero accompagnato per tutto il resto della mia vita, ma il tempo passa ed io, da parte mia, ho cercato di dimenticare, andando avanti con altre amicizie. Dimenticare non è per niente facile. Ad esempio, ieri sera ho ritrovato delle vecchie foto di queste amiche, le lacrime sono uscite incondizionatamente e le emozioni hanno preso il sopravvento sulla razionalità che mi diceva che ormai era passato.
Perché il dolore del passato ci tormenta anche spesso e ben volentieri nel presente? C'è una soluzione alla paura di dimenticare o al dolore del ricordare?
Maria Grazia

Cara Maria Grazia,

L’austriaco-americano Erich R. Kandel ha preso il premio Nobel 2000 per la Medicina e le neuroscienze per i suoi studi sulla memoria e sull’apprendimento. Grazie a lui, oggi, sappiamo che i meccanismi della memoria sono legati a complessi sistemi di regolazione dell’attività cellulare, prevalentemente basati sulla fosforilazione delle proteine.
Nel cervello umano ci sono miliardi di cellule nervose che sono collegate tra loro grazie a una complessa rete di processi. Il messaggio viene inviato da una cellula nervosa all’altra grazie a trasmettitori chimici e la "comunicazione" avviene in specifici punti di contatto chiamati sinapsi. Eric Kandel ha puntato le sue ricerche pionieristiche sulla trasmissione sinaptica lenta, che è un tipo particolare di trasmissione di segnali tra le cellule nervose, dando la possibilità di mettere a punto nuovi farmaci. Ma soprattutto, le sue ricerche sulla plasticità sinaptica hanno individuato i meccanismi cellulari, molecolari e genetici della memoria.
I neuroni, in certe situazioni, possono mutare le sinapsi : questo dimostra la loro plasticità.
Quando apprendiamo e memorizziamo un comportamento, un evento, un testo, ne imprimiamo le tracce in una zona specifica del nostro cervello. La tesi di Kandel è stata che la memoria sia il risultato di micro-modificazioni fisiche delle sinapsi. La difficoltà della ricerca era quella di percepire tali cambiamenti infinitesimali tra i miliardi di sinapsi che compongono il cervello umano.

Da qui la sua intuizione di studiare l’Aplysia californica, la lumaca marina dell’isola di Catalina.
I neuroni dell’Aplysia sono simili ai nostri e i segnali elettrici che i suoi neuroni si inviano tra loro, assolutamente identici a quelli dell’uomo. Anche se il gasteropodo in questione ha un sistema nervoso composto di soli ventimila neuroni, contro gli 11-100 miliardi del cervello umano. Grazie ai suoi esperimenti con l’Aplysia, ha capito che un semplice riflesso di retrazione del suo organo respiratorio (branchia e sifone) può venire modificato in due modi: per abitudine o sensibilizzazione. Inoltre ha provato che questi riflessi comportamentali alla stimolazione sono provocati dalla plasticità della sinapsi: dunque, che la memoria nasce nella sinapsi.
Oggi, abbiamo la consapevolezza che all’interno del neurone sensoriale si attiva un gene, detto CREB, il quale determina la sintesi di proteine che modifica in modo più o meno persistente la sinapsi generando le due possibili forme della memoria: una transitoria a breve termine, ed una duratura o a lungo termine. Ciò ha confermato la sua teoria che la memoria avesse una spiegazione organica.


Eric kandel afferma che la memoria è fondamentale nei processi mentali e nell’approccio psicoanalitico, perché noi siamo chi siamo soprattutto grazie a quello che ricordiamo della nostra vita.


Neanche la persona più algida e imperturbabile ne è immune. Sogni e ricordi sono l’unico laccio tenace che ci tiene stretti al futuro e al passato: i mattoni portanti della nostra vita. Cosa sarebbe l’esistenza senza l’eccitante propulsione del sogno e del desiderio e senza l’educativo bagaglio della memoria? Il mosaico di noi stessi si è autocostruito con le preziose tessere dei ricordi che disegnano il DNA del nostro vissuto, del nostro carattere, del nostro comportamento. L’io-uomo è quello che ha imparato ad essere con l’apprendimento, con l’interesse, con lo stimolo che la "memoria" ha metabolizzato in una personalità unica e distinta da tutte le altre. Un profumo, un sapore, una musica, una voce, possono riaccendere istantaneamente il bambino che siamo stati, l’adolescente, l’adulto, nella sequenza filmica del nostro passato. Possono tuffarci nelle pieghe stratificate dei ricordi con sensazioni analoghe, senza soluzione di continuità, azzerando il tempo. Lo stesso stimolo scatena il riflesso condizionato della stessa emozione, confermando la nostra identità innata e quella costruita. Questa è la memoria. La memoria sensoriale. La memoria che rievoca e rinsalda. La memoria che fa di noi quello che siamo.

Ma la memoria, oltre che emotiva, è anche funzionale. Si distingue così una memoria associata all’apprendimento e alla rievocazione di informazioni (memoria dichiarativa) da una memoria di azioni (memoria procedurale) che consiste nel saper fare una determinata cosa per averla già fatta altre volte. Dal punto di vista scientifico, le classificazioni più accreditate concordano nel suddividere la memoria in: sensoriale, cioè il processo percettivo in cui le informazioni provenienti dagli organi di senso vengono riconosciute; a breve termine, che trattiene un numero limitato di informazioni per un breve periodo di tempo (pochi secondi) e comporta l’ attivazione elettrica di alcuni neuroni , senza modificazioni durature; a lungo termine, grazie alla quale le informazioni vengono trattenute per un periodo di tempo più lungo. Poi, parte delle informazioni si perde, parte si conferma e diviene memoria permanente. Segue così una fase di consolidamento con la quale l’informazione memorizzata diventa resistente all’oblio e all’interferenza con altre informazioni. La memoria a lungo termine implica la creazione di nuove connessioni tra i neuroni del cervello, grazie all’attivazione della produzione di Rna e specifiche proteine. Esiste poi la cosiddetta - memoria emotiva -, identificabile con l’inconscio, in cui restano incise le esperienze "preferite" dalla nostra mente che ha una capacità selettiva in grado di evitare il peso di informazioni inutili. La memoria del linguaggio, grazie alla quale ricordiamo vocaboli e regole grammaticali che permettono di esprimerci correttamente e di comunicare. E ancora, la memoria dell’ambiente e della società: il lavoro, la famiglia, i rapporti con gli altri. La memoria, pur essendo un processo dinamico, può identificarsi come una sorta di archivio dove i ricordi vengono in qualche modo messi in ordine e classificati. La "chiave" con cui l’informazione viene collocata sarà anche quella che permetterà di accedere all’archivio al momento del recupero dell’informazione.

Joseph LeDoux, a capo di un gruppo di ricercatori del Centro per le Scienze Neurologiche di New York ha recentemente messo a punto un farmaco capace di eliminare in modo selettivo alcuni ricordi dalla memoria dei ratti, lasciando integri gli altri; ovvero sono riusciti a intervenire sul meccanismo che, regolando il trasferimento dei ricordi dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, dà vita ai ricordi permanenti. Questo processo, noto come riconsolidamento, può essere alterato o interrotto con opportuni farmaci, evitando in modo selettivo la formazione di alcuni specifici ricordi, senza modificare gli altri. I ricercatori hanno indotto alcuni ratti ad avere paura di due differenti suoni facendoglieli sentire mentre veniva loro inflitta una scarica elettrica. Hanno poi somministrato a metà degli animali l’U0126, un composto chimico noto per provocare amnesie, mentre facevano sentire ai topolini di nuovo i suoni, nel tentativo di far riaffiorare il ricordo spiacevole. Il giorno dopo, sono stati fatti ascoltare gli stessi rumori ai topolini, ma quelli trattati con l’U0126 sembravano non avere più “memoria” di quella paura, mentre gli altri associavano il rumore allo sgradevole ricordo della scossa elettrica. Secondo i ricercatori, il timore del suono (e quindi dell’esperienza negativa) non si è consolidato nella memoria permanente dei ratti “curati” con l’U0126.

Secondo LeDoux in questo processo gioca un ruolo fondamentale l’amigdala: è una zona del cervello in cui, durante la formazione di un ricordo spiacevole, si può notare un consistente incremento delle comunicazioni tra i neuroni. Nei ratti trattati con il farmaco il numero di queste connessioni neuronali era molto ridotto: questo indica una vera e propria cancellazione della memoria dolorosa.
La ricerca del team americano non è comunque la prima nel suo genere: già nel 2004 un gruppo di scienziati di Cambridge aveva ipotizzato di poter alterare il processo di riconsolidamento dei ricordi per intervenire alla radice su problemi come le dipendenze da droga e alcol, le fobie ricorrenti e le sindromi da stress. Secondo i ricercatori britannici la memoria subisce un riconsolidamento ogni volta che vengono fatte affiorare i ricordi, come in un file che viene aperto e poi salvato. Grazie a opportuni farmaci dovrebbe essere possibile interrompere questo processo, impedendo il “salvataggio del file” e cancellando così il ricordo spiacevole.
È evidente come questo tipo di ricerca apra il dibattito su numerosi problemi etici: se la parte più psicologica dell’essere umano è anche il frutto delle esperienze, la cancellazione selettiva dei ricordi spiacevoli non rischia forse di trasformarci in automi sorridenti, incapaci di apprendere dagli avvenimenti negativi e quindi di migliorare? Quanto potrebbe sopravvivere l’uomo senza la difesa offerta dalle paure? Contro questo tipo di studi si è apertamente schierato anche il Comitato di Bioetica della Casa Bianca, secondo il quale modificare il contenuto della nostra memoria equivale a modificare la nostra personalità.
I fautori del “lifting” chimico, capaci di farci vivere, almeno in teoria, più felici e meno stressati sono comunque numerosi. Roger Pitman, psichiatra di Harvard, sostiene che la cancellazione della memoria sia addirittura doverosa in tutti quei casi come gli attentati terroristici, gli stupri e gli incidenti, che rischiano di condizionare per tutta la vita l’emotività e la serenità di chi li subisce.

Un caro saluto
Alessandra

sabato 13 marzo 2010

LA SOLITUDINE (convergenza di neuroscienze, genetica e psicologia evolutiva).



Se pensiamo alla solitudine, I primi pensieri che ci vengono in mente sono pensieri negativi, di tristezza, di malinconia. Sembra che la solitudine sia sempre dentro di noi, noi ci sentiamo sempre soli, a volte di più altre di meno, e non riusciamo mai ed eliminarla del tutto. Perché? Anche quando siamo accerchiati da persone che ci vogliono bene ci sentiamo soldi e sentiamo ancora la mancanza di qualcosa. A volte però siamo proprio noi che cerchiamo la solitudine, lo stare da soli, quando abbiamo il desiderio di riflettere, di pensare a noi stessi, ai nostri comportamenti e ci facciamo delle domande su ciò che ci sta accadendo nella vita; quando siamo soli riusciamo a pensare senza essere condizionati dai pensieri di altri. Perché vediamo la solitudine come cosa negativa ma la cerchiamo? Il nostro essere quindi vuole rimanere da solo, ma sente il bisogno degli altri; cerchiamo la solitudine, ma poi non la vogliamo. Perché?
Giuliana




Cara Giuliana,

Avevo concluso il mio POST sul MALE e sul BENE (vedi: http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/01/il-bene-e-il-male-rev-1.html), con la sintesi di un LIBRO “Solitudine. L'essere umano e il bisogno dell'altro” di Cacioppo John T., Patrick William:

“Essere soli è diverso dallo stare da soli o dal sentirsi soli. Il dolore cronico della solitudine è una ferita lacerante che può alterare il nostro equilibrio fisiologico. È un giogo che trasforma il bisogno insoddisfatto dell'altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili. La solitudine non è una sensazione ineffabile, è qualcosa di ben radicato nella nostra biologia, che coinvolge il corpo in maniera totale, dalla circolazione del sangue alla trasmissione degli impulsi nervosi. Le immagini del cervello ottenute con le nuove tecniche di neurovisualizzazione mostrano che le sensazioni di emarginazione sociale e il dolore fisico condividono lo stesso meccanismo fisiologico. Ma per comprendere perché la solitudine ci fa soffrire bisogna scoprire il passaggio evolutivo dal gene egoista all'essere sociale. Perché Homo sapiens si è evoluto come specie superiore? John T. Cacioppo trova la soluzione nel "terzo adattamento": i fattori decisivi del successo riproduttivo dell'uomo si fondano sull'empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali. Privarsi dello scambio con gli altri provoca uno strappo nel tessuto genetico che si espande nel nostro essere fino a pervadere le emozioni. In Solitudine, neuroscienze, genetica e psicologia evoluzionistica convergono, proponendo al lettore le acquisizioni più avanzate della ricerca per la diagnosi e la cura di una delle più diffuse malattie del nostro tempo. Dopo aver letto questo libro nessuno vorrà essere solo. E non lo sarà.”

In questo POST, aggiungo un articolo MOLTO ESPLICATIVO DEL PROBLEMA DELLA SOLITUDINE de “Il Sole-24 Ore” dedicato allo stesso libro:

Un'affollata solitudine.


“Se il direttore di uno zoo dovesse realizzare un recinto appropriato per la specie Homo sapiens , al primo posto nell'elenco dei punti importanti metterebbe «Animale necessariamente gregario», nel senso che non si può far vivere un membro della famiglia umana in isolamento, non più di quanto si possa far vivere un membro di Aptenodytes forsteri , il pinguino imperatore, in un deserto di sabbia. Sarebbe privo di senso inserire una creatura in un ambiente che forza fino a quel punto il suo guinzaglio genetico. Ciò malgrado,per circa cinque secoli –e a un ritmo molto più sostenuto negli ultimi cinquant'anni – le società occidentali hanno fatto retrocedere il gregarismo umano da una necessità a un fattore accessorio. Di fatto, i dati più recenti indicano che il numero delle persone che accettano una vita in cui sono fisicamente, e forse emotivamente, isolate
dagli altri è in crescita. Consideriamo i seguenti dati:
a) in uno studio delle scienze sociali del 2004, la percentuale dei soggetti che dichiaravano di non avere nessuno con cui discutere questioni importanti era triplicata rispetto a quella rilevata in uno studio del 1985;
b) nell'ultima ventina d'anni, negli Stati Uniti la dimensione media delle famiglie è diminuita all'incirca del 10%, raggiungendo il valore di 2,5 persone;
c) nel 1990, tra le famiglie con figli minorenni più di una su cinque comprendeva un sologenitore. Attualmente, le famiglie con un solo genitore sono quasi una su tre;
d) nel 2000 negli Stati Uniti le persone che vivevano completamente da sole, per il 36% ultrasessantacinquenni, erano più di 27 milioni. Secondo le proiezioni dell'U.S. Census Bureau, nel 2010 saranno 29 milioni –con un aumento di più del 30%dal 1980 –e in una percentuale enorme saranno ultrasessantacinquenni.
Poiché la struttura delle carriere, delle abitazioni e della mortalità e le olitiche sociali sono guidate dal capitalismo globale, gran parte del mondo sembra determinata ad adottare uno stile di vita che aggraverà e rafforzerà la sensazione cronica di isolamento che milioni di persone provano già, anche quando sono circondate da familiari e amici ben intenzionati. La contraddizione è che abbiamo modificato radicalmente l'ambiente, ma la nostra fisiologia è rimasta invariata. Per quanto ricche e tecnologicamente avanzate siano diventate le nostre società, sotto sotto siamo le stesse creature vulnerabili che si stringevano le une alle altre terrorizzate dai temporali 60mila anni or sono.
***
Come ogni altra caratteristica, la propensione genetica a desiderare le relazioni sociali e la tendenza a provare dolore sociale in situazioni di isolamento si trasmettono grazie alle informazioni genetiche contenute nelle nostre cellule, codificate come istruzioni per produrre proteine. L'espressione di questi geni dipende dalle circostanze ambientali, tanto quelle reali quanto quelle meramente percepite. Alcune delle proteine assumono la forma di ormoni che trasportano messaggi nel sangue. Questi messaggi servono a integrare diversi sistemi organici e a coordinare le risposte comportamentali.
Uno di questi ormoni è l'epinefrina, che ci può inondare di quell'insieme di sensazioni che chiamiamo eccitazione. Un'altra piccola proteina –l'ormone ossitocina –favorisce l'allattamento, la calma rasserenante e l'intimità stretta. Altre proteine geneticamente orchestrate danno origine a neurotrasmettitori quali la serotonina, che può migliorare il nostro umore oppure gettarci nella disperazione, a seconda della sua concentrazione nel cervello. I geni forniscono le carote e i bastoni chimici che guidano il comportamento, ma dipendono dai sistemi sensoriali per poter interagire realmente con l'ambiente. I segnali che i sensi ricevono dall'ambiente provocano cambiamenti della concentrazione e del flusso di questi ormoni e neurotrasmettitori. Queste sostanze chimiche agiscono come segnali interni per stimolare comportamenti specifici – ed è qui che le istruzioni genetiche alla fine si manifestano come differenze individuali nei livelli di ansia, di giovialità o di sensibilità alle sensazioni di isolamento sociale.
Nel corso della storia, gli individui con tendenze comportamentali meno bene adattate all'ambiente non sono sopravvissuti, oppure sono sopravvissuti solo marginalmente, o non abbastanza a lungo da generare lo stesso numero di figli degli individui con un adattamento migliore.
***
Tra gli esseri umani ancestrali, stringere legami con i membri del gruppo più ampio divenne la norma, ma per ragioni diverse a seconda del sesso. I legami offrivano alle femmine dei cacciatori-raccoglitori un vantaggio per la sopravvivenza: il gruppo significava sicurezza, ma anche poter condividere i doveri materni mentre ci si occupava di altre faccende necessarie. Anche tra i babbuini selvatici della savana africana, le differenze individuali nella capacità di formare relazioni intime con altre femmine hanno un effetto significativo sul tasso di sopravvivenza della prole (...). Tra i primi esseri umani di sesso maschi-le, gracili saprofagi armati solo di bastoni appuntiti, stringere legami per formare alleanze divenne la norma innanzitutto per i vantaggi politici che ne derivavano (peraltro il predominio politico offriva migliori opportunità di accoppiamento) e anche perché l'unione fa la forza. Ma il più grande vantaggio della connessione e della coordinazione sociale era forse la possibilità di ottenere grandi quantità di proteine concentrate (...).
Presumendo una variazione normale nel bisogno di relazioni sociali influenzato dai geni, si può immaginare che centomila anni or sono, poniamo, un maschio potesse avere un termostato sociale regolato su un livello tanto basso da potersi accaparrare il cibo senza provare vergogna, senso di colpa o dolore. Poteva andarsene a caccia per tre giorni, trovare il posto in cui giocavano le antilopi e non tornare mai indietro. Poteva ignorare l'assenza della sua famiglia,o l'idea che potessero morire di fame. Assuefatto alla solitudine come segnale di pericolo, cacciando per sfamare solo se stesso, forse si nutriva meglio dei maschi che riportavano cibo all'accampamento e contribuivano al bene di tutti.
Tuttavia, se i suoi figli non sopravvivevano abbastanza a lungo da maturare e riprodursi e nutrire i propri figli, non sopravvivevano nemmeno i suoi geni (anche qualora non fosse sopravvissuta la sua tribù, i suoi figli avrebbero avuto minori probabilità di sopravvivere).
I geni più vecchi e completamente egoisti continuarono a esistere, ma la loro influenza nella popolazione in generale si ridusse per il continuo calo riproduttivo. Il successo individuale ormai era guidato dalla capacità di trascendere l'egoismo e di agire nell'interesse di altri.Il gene egoista aveva dato origine a un cervello sociale e a un diverso tipo di animale sociale.”


Concludo, quindi, nel dire che il SOFFRIRE LA SOLITUDINE e IL CERCARE LA SOLITUDINE, è molto simile al prevalere del BENE e del MALE (ovvero dell'altruismo e dell'egoismo), che in questa fase evolutiva dell'umanità COESISTONO in ogni uomo, anche se in misura diversa, anche in funzione dell'emotività e dei sentimenti che variano nel tempo e nelle varie circostanze.

Un caro saluto
Alessandra

domenica 7 marzo 2010

BIOETICA - Ingegneria genetica.



Il 26 Febbraio 2010, sul corriere della sera ON LINE è stato pubblicato un articolo di Alessandra Fargas, che mi ha colpito particolarmente:

NEW YORK - In futuro un bimbo potrà avere tre, quattro o anche cento genitori. Lo affermano gli scienziati dell’Oregon National Primate Research Center, che, per eliminare le malattie che si ereditano tramite il DNA materno, hanno creato un cucciolo di scimmia con un padre e due madri.

Il metodo da loro seguito prevede la rimozione del DNA “difettoso” dall’ovulo della madre e la sostituzione con materiale genetico da un altro ovulo femminile. Una tecnica che, almeno in teoria, un giorno potrebbe essere applicata anche agli esseri umani.

Ma l’ipotesi che in un futuro non lontano sarà possibile creare individui con un numero di genitori biologici multiplo sta già creando scompiglio in un’area che dal punto di vista legale è già nel caos. “Chi, nell’era dell’inseminazione artificiale e delle madri surrogate verrà legalmente considerato il genitore di un bambino?”, si chiede il New York Times.

“Potrebbe un giorno esistere un bambino con 100 genitori?” si chiede Adam Kolber, docente di Legge dell’Università di San Diego"

Nascono, quindi, tutta una nuova serie di problemi bioetici?
Massimiliano

Caro Masimiliano,

PREMETTO che, grazie all’ingegneria genetica i geni possono essere isolati, letti, copiati, modificati, combinati in maniera diversa, o trasmessi da un essere vivente a un altro. L’ingegneria genetica è utilizzata nel campo della ricerca, in medicina, come anche per lo sviluppo di piante geneticamente modificate.

Inoltre è possibile introdurre dei cambiamenti precisi dentro questo libro, come per esempio introdurvi una frase. Il DNA della cellula conterrà quindi un gene in più.

Un trasferimento di geni di questo tipo funziona anche tra esseri viventi non "imparentati". Così diventa possibile, per esempio, introdurre un gene batterico dentro il DNA di una pianta.

Come tutte le nuove tecnologie, l’ingegneria genetica suscita allo stesso tempo speranze e paure. Immaginare che grazie all’ingegneria genetica si potrà un giorno far sparire tutte le malattie o la fame nel mondo è tanto sbagliato quanto pensare che i genetisti producono dei mostri nei loro laboratori.

Composto da due sottilissimi filamenti avvolti tra di loro a formare una doppia elica, il DNA é costituito da un numero considerevole, variabile da specie a specie, di sequenze di basi azotate o nucleotidi, (A: adenina; C: citidina; G: guanina; T: timina, ciascuno con ai lati una molecola di zuccheri ed una di fosfati) che si susseguono in maniera fissa per ogni individuo. I due filamenti si accoppiano in modo tale che, là dove su di uno appare la lettera A, su quello corrispondente appare la T; mentre alla lettera C, corrisponde la G. Per avere una idea della sua complessità, basta pensare che nell'uomo esso é composto da circa tre miliardi di nucleotidi, formanti circa cento mila geni, racchiusi nei cromosomi nucleari ed in piccolissima parte nei mitocondri citoplasmatici, sotto forma di un filamento, della lunghezza di due metri, se svolto, e dello spessore di IO A° (un Amstrong equivale ad un diecimilionesimo di millimetro). Nel maggio 2000 la società biotecnologica americana Celera Genetic, ha concluso la mappatura della intera sequenza delle basi nucleotidiche del genoma umano, ponendo i presupposti per la decrittizzazione di tutti i geni, calcolati tra i trenta e i quarantamila da studi recentissimi.

Una domanda sorge, allora, spontanea: “Fino a che punto l’uomo ha diritto di manipolare il DNA, e specialmente il DNA umano?”.
Certo è che, ad esempio, in Cina non si fanno tanti scrupoli di ordine religioso e morale nell’ingegneria genetica, anche ai fini di ricerche che possono comportare notevoli ritorni economici. A quanto sembra hanno già ottenuto IBRIDI di uomo con altri animali (ad esempio conigli). Per cui, noi occidentali possiamo stabilire tutti i LIMITI e i DIVIETI che vogliamo, ma questo non impedirà che il DNA umano venga manipolato lo stesso.

Forse, nel creato, l’uomo fa parte del gioco, come l’arbitro ne fa parte in una partita di calcio; ovvero come i castori modificano, con le loro dighe, radicalmente l’ambiente in cui vivono, e le api sono indispensabili nell’impollinare i fiori, così anche l’uomo ha, FORSE, la facoltà di intervenire nel modificare la natura.

Un caro saluto.

Alessandra

venerdì 5 marzo 2010

BIOETICA - Vita vegetativa e testamento biologico.



A volte, in seguito a un grave incidente, un uomo viene ridotto allo stato vegetale. Non si può più parlare, muoversi o comunicare in attesa della morte. Perché noi non possiamo esprimere le nostre volontà, oggi ,per quando saremo in una simile eventualità e dare indicazioni su cosa fare? Perché siamo costretti a obbedire (anche in quelle condizioni) ad una “legge” della Chiesa che ci impedisce di interrompere la vita e le sofferenze? Dicono che dopo la morte c’è una vita di felicità, allora perché a queste persone non la si può dare subito?

Maria Teresa


Cara Maria Teresa,
Innanzi tutto occorre fare chiarezza su cos’è uno stato vegetativo. Si tratta di uno stato clinico conseguente al coma o che, nella fase terminale della vita, lo può precedere.
In sintesi, la definizione internazionalmente accettata dello stato vegetativo indica una condizione clinica in cui il paziente è sveglio (cioè ha gli occhi aperti, mentre nel coma gli occhi sono sempre chiusi), ma non è cosciente (non è consapevole di sé e di sé rispetto all’ambiente: in pratica non comunica e non risponde all’ambiente circostante).
Wikipedia ne dà una definizione sostanzialmente corretta: “[…] un paziente in stato vegetativo ha perso le funzioni neurologiche cognitive e la consapevolezza dell’ambiente intorno a sé, ma mantiene quelle non-cognitive e il ciclo sonno-veglia; può avere movimenti spontanei e apre gli occhi se stimolato, ma non parla e non obbedisce ai comandi. I pazienti in stato vegetativo possono apparire in qualche modo normali: di tanto in tanto possono fare smorfie, ridere o piangere”. Tutto questo senza però valenza emotiva e volitiva. Un semplice e puro automatismo riflesso.

Ricordiamo che, per quanto riguarda la chiesa cattolica, La dottrina, in merito all'eutanasia, è riassunta nell'articolo del Catechismo della Chiesa Cattolica dedicata al quinto comandamento:
2277 Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile.
Così un'azione oppure un'omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L'errore di giudizio, nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest'atto omicida, sempre da condannare e da escludere.
2278 L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.
2279 Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d'ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.

Invece, a titolo di curiosità, ricordiamo che il Dalai Lama, in visita a Roma e intervistato sul concomitante caso di Eluana Englaro, in stato vegetativo da 17 anni, ha ribadito le sue convinzioni sull'argomento:
L'eutanasia "dovremmo evitarla, ma in casi particolari si potrebbero fare delle eccezioni". Su Eluana: "Se veramente non c'è alcuna possibilità di guarigione, mantenere quello status è molto costoso e le famiglie soffrono, allora si potrebbe agire. In generale se pure una persona non cammina più, ma il suo corpo e il suo cervello sono ancora presenti, allora è meglio tenere una persona in vita, ma si possono fare eccezioni".
Le cure vanno fermate se non vi è "la possibilità di recuperare la coscienza e le funzioni mentali". Nel buddismo, "nei casi di male incurabile c'è una pratica che consente l'abbandono della coscienza dal corpo"; negli altri casi "anche noi parliamo di suicidio".

Riportiamo, anche il parere di Umberto Veronesi (http://www.cdbchieri.it/rassegna_stampa_2009/englaro.htm):

"Il diritto di disporre della propria vita esiste. E´ sancito dall´articolo 13 sulla libertà personale e dall’articolo 32 della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario e anche dall´articolo 35 del Codice di Deontologia Medica che conferma che non è consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona.". Sappia quindi la gente che c´è un punto fermo : nessuno può violare questo diritto e c´è chi si impegna a farlo rispettare sempre e comunque nella sua sostanza. Eluana oggi non è quella delle foto. E´ una donna di quasi quarant´anni anni, senza sorriso, senza espressione negli occhi, senza vita di relazione, senza coscienza, senza controllo di un corpo, che è ormai un involucro in disfacimento. La sua vita meravigliosa si è spenta per sempre 17 anni fa.

Fatte queste premesse, veniamo al dibattito politico in Italia.
L'argomento, "eticamente sensibile", è oggetto di posizioni differenti fra correnti di pensiero di tipo laico, radicale comprese discussioni di ispirazione cristiana sull'eutanasia e di forte difesa della vita.
Per quanto riguarda l'eutanasia il Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso nel dicembre 2003 con un documento, di 19 pagine, contenente un'analisi delle problematiche connesse e terminante con una serie di raccomandazioni, il cui rispetto garantisce la legittimità delle dichiarazioni anticipate. Nel documento si afferma che le dichiarazioni anticipate non possono contenere indicazioni «in contraddizione col diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia (...) il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza» e che «il diritto che si vuol riconoscere al paziente di orientare i trattamenti a cui potrebbe essere sottoposto, ove divenuto incapace di intendere e di volere, non è un diritto all’eutanasia, né un diritto soggettivo a morire che il paziente possa far valere nel rapporto col medico (...) ma esclusivamente il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche anche nei casi più estremi e tragici di sostegno vitale, pratiche che il paziente avrebbe il pieno diritto morale e giuridico di rifiutare, ove capace»
Il documento del Comitato Nazionale di Bioetica afferma inoltre che i medici dovranno non solo tenere in considerazione le direttive anticipate scritte su un foglio firmato dall'interessato, ma anche documentare per iscritto nella cartella clinica le sue azioni rispetto alle dichiarazioni anticipate, sia che vengano attuate o disattese.
Di tanto in tanto alcuni casi di morte per termine o rifiuto del trattamento medico (come quelli di Luca Coscioni e Eluana Englaro) pongono all'attenzione della politica e dell'opinione pubblica la necessità di legiferare in maniera chiara sull'argomento
In attesa di una legge che regoli la materia è in atto, in molti comuni italiani, la raccolta della dichiarazione anticipata di trattamento dei cittadini residenti nel territorio interessato. Per i promotori di queste iniziative questi atti non eludono e non anticipano le iniziative legislative, ma sono l'azione necessaria perché, in caso di bisogno, non sia necessario ricostruire, a posteriori, le volontà dell'interessato, come è successo nel caso di Eluana Englaro.

Concludo, facendo riferimento al post del BLOG "VERITA' A CONFRONTO":
http://nuoveteorie.blogspot.com/2009/04/vita-vegetativa-e-vita-umana-quando.html

La vita di una persona umana INIZIA quando, diventato FETO, il suo cervello è in grado di comunicare con altri cervelli umani, anche allo stato inconscio. Già dopo la prima comunicazione, il SUO DNA, INVARIATO DAL CONCEPIMENTO, INIZIA A MODIFICARSI, VISTO CHE SI MODIFICANO LE SINAPSI DEL CERVELLO ED INIZIA A FARE ED IMMAGAZZINARE ESPERIENZE INTERAGENDO ANCHE CON L'AMBIENTE STESSO.

LA VITA ANIMALE (compresa quella di tipo umano) DIFFERISCE DA QUELLA VEGETALE PER L'APPRENDIMENTO IN RELAZIONE ALLE ESPERIENZE (i vegetali non apprendono dalle singole esperienze allo stesso modo degli animali).

LA VITA ANIMALE ED UMANA E' VARIAZIONE INCESSANTE DELLE SINAPSI CEREBRALI E DEL DNA (E NON IMMUTABILITA' DEL DNA CHE RIMANE ANCHE IN UN ORGANO IN ATTESA DI UN TRAPIANTO).

Qui siamo nel campo delle NEUROSCIENZE: Eric Kandel ha preso il NOBEL nel 2000 proprio per aver dimostrato, con studi sulla lumaca di mare Aplysia e sui topi, che ad ogni nuova esperienza o apprendimento fatto da un individuo animale (o umano) con un cervello con neuroni e sinapsi, corrisponde una MODIFICAZIONE DELLA RETE NEURONALE E SINAPTICA (con nuove sinapsi o anche con semplici ispessimento di alcune delle sinapsi esistenti). A queste modificazioni sinaptiche, per le funzioni trascrizionali del DNA, corrisponde anche una variazione del DNA che in gran parte si tramanda anche ai discendenti (vedi: http://www.psicoanalisi.it/psicoanalisi/neuroscienze/articoli/neuro4.htm).

Ovviamente, vi sono settori di variabilità del DNA che interessano le mofidicazioni della forma e delle funzioni organiche; altre modificazioni, invece, interessano proprio l'aspetto umano (carattere, fobie, intuito, complessi, archetipi, etc.). MODIFICARE INCESSANTEMENTE IL DNA SOTTO QUESTO ASPETTO (diciamo MENTALE) EQUIVALE A FARE ESPERIENZE E VIVERE UNA VITA PARAGONABILE A UNA VITA UMANA SPIRITUALE

Un caro saluto

Alessandra